Barcamenare
maggio 2003
La casa dai mattoni rossi leva l’ancora
Dopo il fortunale della notte la Isa cullava la sua emicrania col rollio della casa che andava alla deriva in un mare sterminato di colza di grano. Seduta, tesa come un arco, in agguato a cogliere il minimo rumore che non fosse lo schiaffo delle onde contro la fiancata della sua nave di mattoni rossi, fu distratta dal passaggio fulmineo di un topino che dalla cucina si era fiondato nella camera degli ospiti. Contando le sartie sfilacciate che dondolavano davanti ai suoi occhi pensava ai danni della tempesta di quella notte: il pennone si era schiantato e giaceva fra le tegole rotte sul tetto, un fulmine si era abbattuto sull’antenna della televisione e la vela di trinchetto aveva uno sbrano dove era già stata rattoppata, La cucina sembrava anemica, incipriata di farina, come se avesse nevicato là dentro: una nevicata invece di una tempesta.
Spostando la ciotola del caffèlatte colla mano, distrattamente, distende un foglio fiammeggiante che avvampa di bianco; tenta di spengere quell’incendio tracciando sopra dei segni, inchioda il soggetto alla matita per impedirgli il più lieve movimento di fuga. La mano, nello spasimo di impulsi incontrollati, si getta sulla carta colla rabbia di un gatto e, selvaggiamente, con prese fulminee come morsi, fa a pezzi quel sorcio che voleva sfuggire da sotto la matita; la sua furia si spenge quando sul foglio appare il disegno di un cadaverino a pancia in su.
Il mare si stava calmando.
Fece l’appello della ciurma fantasma e a quell’appello, come sempre, mancava proprio lei, che la paura del ridicolo e l’amarezza della storia aveva impedito di accostare la rivoluzione alla felicità dell’arte: non aveva voluto sapere né vedere, era sparita tanto tempo fa.
Poi decise di scendere nella stiva per la conta giornaliera della provvista di tele preparate a tempera e per controllare che durante la notte qualcuno fosse per caso impazzito e si fosse azzardato a buttare qualche opera a mare. Tutto era in ordine. E allora si autorizzò in sordina alla resa dei conti: un’opera che avrebbe dovuto metterla al riparo dalla storia condivisa con quella ciurma di fantasmi.
Il silenzio che precede la creazione è rotto ogni tanto: qualche onda cattiva si fa sentire con una bordata al fianco della nave che si lamenta con uno scricchiolio.
Ogni tre respiri, a intervalli regolari, si passa sul labbro superiore, come una pornodiva, la punta della lingua che sembra la prua di una lancia stondata. Intanto la ciurma fantasma traffica sul ponte e prepara la cena e lei, ispirata, ad attendere l’aria della sera che forma addensamenti di velluto, scie profumate di gelsomino, cascate di ozono, dai camini aromi fumosi, resinosi come incenso, il palpito lontano dei fari di una macchina come due occhi accesi, vuoti d’aria improvvisi che sbocciano nelle zone dell’infinito e che preparano ai grappoli di oscurità.
Dall’oblò dello studio arriva il filo d’aria dell’erba tagliata di fresco arricchita dal veleno del fieno che esala l’ultimo respiro.
Ora il mare è un olio, la nave riprende il largo e sul tetto della casa gli storni si affannano a ristabilire le gerarchie sconvolte dai fatti del giorno con una tiritera interminabile di gorgheggi sgangherati.
Aspettando un bel pensiero disteso in quell’ora della sera, quando una lama di luce entra dalla piccola alta finestra e va a cadere nell’angolo più umido dello studio, e protesa a realizzare il discorso onorevole di un atto finito, sereno come una pratica ordinaria, che non è creazione, ma ripetizione di un godimento come un’abitudine cara -la contemplazione di un bucato steso di fresco, per esempio- la Isa si regala il sogno di dignità immaginando che una qualsiasi povera cosa venga esposta con il lustro che si attribuisce all’arte in una sala di un museo.
Ora riposa nella pertinace dedizione alla memoria di una discendenza indefinita, un tracciato antico, qualcosa come un’anarchia contadina, è in grembo a quella appartenenza che va risolto il profilo di quell’opera, con quel taglio segreto, con accettazione paziente proprio come si appartiene a un sangue che ospita problemi infinitesimali ma ti serve e protegge il tuo corpo.
Se la raccontava così.
Il capitano instancabile solca con quella casa quel mare di ipotesi; profondo, oscuro, ricco di sostanze che di tanto in tanto si cristallizzano in guai e, come pesci-siluri, bucano l’acqua in superfice felici del minimum di resistenza che hanno incontrato, piene di stupore per la disinvoltura con la quale l’optimum di quell’idea nata dal disagio, diventa forma.
La nave dal tetto rosso pieno di comignoli la porta lontano mentre brucia la dedizione come un carburante e scivola sullo specchio della vita pianificata di chi si ostina a vendere cara la pelle.
Elaborando i temi della sua vita segreta nel regime delle inquietudini e rassicurazioni di un libertinaggio superiore, resta il capitano severo della ciurma ribelle di fantasmi che punisce legandoli al pennone o li frusta con un pennello cinese dalle setole lunghe; è lei che l’incatena al cavalletto e li lascia senza cena, dipingendo loro la faccia colla biacca e il nerofumo.
La nostra eroina sarà l’ultima ad abbandonare quella nave ch’è la sua casa; è incline a credere che l’illusione di un capolavoro non è illusione e sia lì, dentro il suo corpo e che preme dall’interno il suo petto facendole il respiro corto, che abbia generato il desiderio di errare con la sua nave in compagnia di una ciurma che non potrebbe mai abbandonare, andando per un mare sterminato di essenze primigenie antecedenti all’arte, galleggiando in quelle alchimie che fanno diventare la rinuncia preziosa come l’oro.
Ora la sera oltrepassa il suo confine ultimo e diventa dissoluta: la stanza si dissolve; sul tavolato del ponte il catrame si è sciolto e ha invaso ogni angolo; lei sente i suoi piedi sotto il tavolo che si appiccicano a una pania nera. Intorno alla luce della lampada boccheggiano pesci grandocchiuti che fissano attoniti con pupille luccicanti e un fagiano scemo occhieggia dall’oblò.
La Isa, proiezione ortogonale del suo orgoglio, è cotta; e in quel tempo illegale, quando afferra finalmente quel senso, in quell’attimo avverte un vento soffritto che il nostromo le invia dalla cucina: è la chiamata ultima, l’avvertimento estremo: si mangia.
Quello che accadrà è fuori dal conto, non si può calcolare se la maschera genera la parte o viceversa si conosce appena il ruolo della terra e del mare, ma i travestimenti del capitano e dell’artista-contadino non si distinguono: a confortarci sarà solo al via de mutamenti, degli incalcolabili eccessi, delle pretese notturne, di ogni capriccio.
Renato Ranaldi
Firenze 30 maggio 2003